lunedì 10 maggio 2010

Ho rivisto E.

Ho riempito l’ultima borsa e l’ho posata nel carrello, ho pagato il conto con la testa occupata da qualche pensiero e poi mi sono diretta verso l’uscita. Quando si è assorti in qualche ragionamento muto ci si muove tra gli altri senza vederli e ho urtato una donna che avanzava verso di me. Mi ha guardata con un’espressione contratta e mentre balbettavo delle scuse imbarazzate ho riconosciuto la madre di E.
Le ho subito teso la mano salutandola con cordialità e lei ha accennato il sorriso che a volte mi era capitato di vederle dipinto sulla faccia: ha spostato all’insù un solo angolo della bocca. Mi ha fissato coi suoi occhi chiari, appannati da un passato di troppo dolore e mi ha stretto la mano in modo titubante, come se non le piacesse ricordarsi che conosco i buchi del suo passato.
Spostando lo sguardo ho visto anche suo figlio E., seduto su una panchina del centro commerciale. Gli sono andata incontro e ho provato l’impulso di abbracciarlo, ma mi squadrava con i suoi occhi di filo spinato, occhi di un adolescente con troppe ragioni per mostrarsi selvatico e distante.
Mi sono seduta vicino a lui. Mi si è stretto il cuore nel vederlo così poco cresciuto, il fisico macilento, l’abbigliamento trasandato di chi non ha soldi da spenderci. Me lo ricordo di un’intelligenza fuori dal comune, E.
Mi ricordo anche le difficoltà iniziali di inserimento nella classe, la diffidenza degli altri, la sua ribellione verso tutto, mista a una sorta di rassegnazione sofferta. Coi suoi pochi anni doveva farsi carico della fragilità di sua madre, alla quale era stato ricongiunto “in prova”.
Arrivato in terza elementare, era rimasto solo per un anno, perché poi avevano trovato casa altrove. Alla fine dell'anno scolastico affermava sicuro: "Verrò a scuola qui anche l'anno prossimo, anche se abiteremo in un altro paese mia mamma mi porterà con il motorino, me l'ha promesso". Si diceva sicuro che ci saremmo rivisti, purtroppo non era stato possibile.
Avrei voluto rimanere sulla panchina a parlare con lui senza fretta, sua madre però l’ha chiamato:“Dobbiamo andare”.
Gli ho stretto un braccio, gli ho detto:“Sono proprio felice di averti rivisto, in bocca al lupo per tutto”.
Mentre si allontava mi ha sorriso allo stesso modo di sua madre, con un angolo solo della bocca e con gli stessi occhi, dipinti di un grigio azzurro tendente al dolore.

3 commenti:

  1. Mamma che tristezza, Cristina. 'sta cosa mi ha messo un magone che non immagini

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  2. non è una critica, ma secondo me avresti dovuto cedere all'impulso di abbracciarlo. --f.

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  3. Che sincera commozione. Quant'è dura la vita.

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